Verso il XII Congresso della Cgil Lombardia. Quattro anni di impegno. I frontalieri

in UFFICIO STAMPA

Il lavoro frontaliero in Lombardia e nel contesto italiano. Giugno 2018.

 

Ogni giorno quasi centomila lavoratori italiani attraversano la frontiera in uno degli otto Paesi a noi confinanti per prestare la propria opera qualificata, attratti da un salario più significativo che in patria, oltreché da un mercato del lavoro dinamico e da una serie di semplificazioni normative. Respinti per contro, da pregiudizi, luoghi comuni e montanti politiche populiste, quando non esplicitamente xenofobe al familiare grido di “prima i nostri” Ostacolati dalle difficoltà di dialogo tra gli Enti degli Stati di provenienza e di lavoro e discriminazioni più o meno esplicite sul fronte della sicurezza sociale, talvolta differenziata anche sulla base della cittadinanza, completano poi un quadro in chiaro scuro. Così, gli stessi, un po’ privilegiati, un po’ apolidi, rientrano in patria attraverso le lunghe code dei varchi doganali causate da una viabilità non sempre adeguata ai flussi, quando non aggravata da un crescente dissesto idrogeologico lungo l’arco alpino che mette a dura prova le storiche reti viarie, nei periodi estivi, ovviamente, invase anche dal turismo. Un trasporto pubblico spesso sottodimensionato e come tale non alternativo alla mobilità su gomma, a dispetto delle mille teorie sulla mobilità sostenibile, quando non addirittura inesistente, come sul versante orientale del Paese, ove sarebbe invece auspicabile per sostenere l’imponente flusso inverso di colf, badanti ed operatrici sanitarie dalla vicina Slovenia. Non è così sempre, ovviamente, non dappertutto. Per questa ragione il lavoro sindacale a beneficio dei frontalieri richiede una strategia comune da un lato, cioè capace di definirne un’identità giuridica certa, delle linee guida condivise lungo tutte le nostre frontiere e, contestualmente, una declinazione territoriale dall’altro, capace di cogliere e possibilmente rispondere alle tante diverse specificità locali.

 

La Lombardia rappresenta il punto di maggiore concentrazione del fenomeno con oltre 65.000 lavoratori frontalieri distribuiti tra le province di Varese, Como e Sondrio ed occupati nei Cantoni del Ticino e dei Grigioni. Essi assicurano al mercato del lavoro svizzero la manodopera nei settori chiave dell’edilizia, del turismo e dell’assistenza alla persona, contribuendo tanto alla ricchezza cantonale quanto trasferendo in Italia ingenti risorse in forma di salario (per oltre 3,5 MLD ChF) e di ristorni ai Comuni di fascia (per oltre 70 ML ChF). E tuttavia, un salario medio importante, una semplificazione amministrativa ed  una condizione fiscale di vantaggio, non consentono di eludere i problemi aperti: dumping salariale laddove la contrattazione collettiva è inesistente, le professionalità richieste non sono elevatissime ed il potere contrattuale del singolo lavoratore langue; l’adozione di provvedimenti “etnici” quasi a voler marcare il paese d’origine come tratto identitario prioritario rispetto ad ogni altra considerazione di merito afferente alla prestazione lavorativa (l’annosa questione del casellario giudiziario richiesto ai lavoratori italiani ad esempio), adottati sul l’onda delle politiche populiste che oggi trovano nuovo vigore con l’ennesima proposta di referendum dell’UDC (la lega ticinese), per un’occupazione che privilegi i cittadini svizzeri; i problemi d’integrazione connessi alla lingua nelle aree tedescofone. La questione della lingua nei Grigioni ed in altre aree del Paese, vere e proprie aree di sbocco per la domanda di lavoro dei nostri concittadini, non è solo fattore di coesione sociale, bensì rappresenta un limite oggettivo alla crescita delle opportunità professionali che dovrebbe indurre le amministrazioni regionali a maggiori investimenti in tal senso, oggi pressoché inesistenti sul punto; i limiti oggettivi sul tema della sicurezza sociale in termini di esigibilità degli ammortizzatori sociali per i periodi di disoccupazione per il quale solo di recente la SECO (Segreteria di Stato dell’economia Elvetica), ha dato un primo segnale introducendo il diritto per il lavoratore frontaliero all’indennità di disoccupazione parziale connessa alla riduzione temporanea dell’attività lavorativa, provvedimento attuativo nell’arco del prossimo biennio a carico della Confederazione Elvetica. Riteniamo tuttavia che il tema della sicurezza sociale debba trovare adeguata soluzione all’interno della riforma del regolamento comunitario 883 attualmente in discussione e che vede la Svizzera coinvolta nell’ambito delle intense politiche bilaterali con la UE.

 

In tale contesto si inserisce la questione è fiscale ancora aperta che pur di competenza nazionale, ha ricadute enormi sulla nostra Regione. I tre anni di trattative tra delegazioni di Italia e Svizzera che hanno portato nel 2017 all’accordo sottoscritto (ma non recepito dai rispettivi Parlamenti), richiedono tuttavia ancora qualche significativo aggiustamento: tempi di transizione della messa a regime ed estensione della franchigia, solo per citare i più importanti. Consapevoli tuttavia che, anche per i negoziatori, è necessario avere chiaro il quadro degli interessi diffusi al fine di determinare il vero punto di caduta nel caso in cui si riaprisse la discussione sul punto: quello degli Stati in materia di entrate tributarie (l’impazienza Svizzera da un lato e l’attendismo italiano dall’altro), quello dei ristorni per più di 360 Comuni di fascia per i quali quelle entrate rappresentano la vera, se non l’unica, provvista di spesa corrente o di investimento in conto capitale (boccata d’ossigeno nelle maglie strette del patto di stabilità). Ogni altro atteggiamento, ogni tentazione corporativa fomentata da sedicenti associazioni d’interesse, ogni torsione localista dei partiti egemoni, contestualmente di lotta (al Nord) e di Governo (a Roma), che il nuovo quadro di Governo immaginiamo possa amplificarne le contraddizioni, nonché qualche creativa proposta di associazioni datoriali volte a spostare la linea del dumping salariale molto al di sotto della città di Chiasso in nome di una strategia di dubbia efficacia a difesa dell’impresa nostrana, riteniamo possano non contribuire a raggiungere, in questa fase, l’obiettivo comune.

 

Il ruolo centrale della Regione Lombardia nel quadro tanto della presenza dei lavoro frontaliero quanto in quello delle responsabilità istituzionali, deve rappresentare l’opportunità per una politica incisiva sul tema. A titolo esemplificativo è utile ricordare che la commissione speciale Italia – Svizzera coordina i molti progetti Interreg, che la Regione Lombardia è capofila di EUSALP (European Strategy for Alp Region) all’intero del disegno di macro regione alpina, che alcuni Consigli provinciali (Como e Varese in testa), hanno recentemente accolto la proposta del Consiglio sindacale interregionale (di Lombardia Piemonte e Ticino), di costituzione di uno specifico osservatori del fenomeno. Un quadro istituzionale quindi che, pur tra le mille contraddizioni di una fase di transizione eterna che si dibatte tra neo centralismo o cessione di sovranità attraverso il meccanismo delle deleghe tra centro e periferia dell’assetto istituzionale locale e conflitti di attribuzione, ed un clima politico che ha riportato colpevolmente nell’immaginario collettivo la frontiera da luogo ontologicamente fonte di opportunità a barriera foriera di rischi, ha tuttavia le potenzialità affinché si possa consentire un’azione decisiva sulle questioni del lavoro transfrontaliero. Su questo territorio la CGIL è presente attraverso un’azione di informazione nelle tante permanenze organizzate nelle principali Camere del Lavoro di frontiera e garantendo la medesima assistenza dei lavoratori iscritti in Italia, a coloro che sono iscritti all’UNIA in Svizzera (oltre 6000, ma solo il 9% del potenziale che può indurre l’organizzazione ad una riflessione ulteriore sull’investimento da dedicare al presidio territoriale). Siamo presenti al centro di un rapporto privilegiato che possiamo definire senza tema di smentita il “modello svizzero” a cui guardano con interesse altri partner europei. Le relazioni internazionali sono quindi la chiave per affrontare l’imponente lavoro che ci attende, soprattutto possibile grazie al legame stretto stabilito con molte delle organizzazioni sindacali estere. Nello specifico le sinergie tra CGIL e UNIA sono talmente ampie da aver determinato nel corso degli anni accordi di partnership che vanno ben oltre la formazione e l’informazione reciproca, arrivando fino ad accordi di affiliazione nell’interesse dei lavoratori che assistiamo. La collaborazione con il sindacato socialista può ulteriormente essere rafforzata sul fronte dell’informazione, delle tutele legali per il lavoro frontaliero spesso priva per vincoli statutari e normativi, del complesso tema della tutela del lavoro transfrontaliero dei lavoratori distaccati (lavoratori italiani dipendenti di imprese italiane che lavorano all’estero per periodi inferiori ai 90 gg), sul tema dell’iniziativa politica e culturale volta a contrastare le spinte populiste e corporative che hanno preso grande vigore. Auspicabile per quanto ci riguarda, anche un lavoro di armonizzazione rispetto alle modalità attuative delle intese con la CGIL rispetto alle prassi in atto nei diversi Cantoni (Vallese, Ticino e Grigioni), anche in ragione del forte impianto federalista degli stessi.

 

La Lombardia è quindi al centro della strategia sindacale nazionale che si regge su alcune linee d’azione unitaria fondamentali. Centrale è il tema della definizione certa della figura del lavoratore frontaliero attraverso la normazione di diritti all’interno di uno Statuto ad hoc. Il testo, già all’esame da qualche anno di un tavolo interministeriale, che ha visto coinvolti i dicasteri dell’economia, del lavoro e degli esteri e che, fin dal nome, evoca anche simbolicamente uno dei passaggi più importanti della storia delle conquiste sindacali, lo Statuto dei lavoratori appunto, si fonda su una serie di previsioni normative volte a regolare, ove non a garantire ex novo, un sistema di ammortizzatori sociali capace di intervenire in quei casi di alta flessibilità dei rapporti di lavoro non adeguatamente tutelati nel Paese di lavoro e solo parzialmente in Italia (si pensi a esempio al ricorso alla Naspi per i lavoratori frontalieri in periodo d’inoccupazione). Un impianto normativo volto a introdurre misure di semplificazione fiscale in relazione alle situazioni differenziate di tassazione concorrente o esclusiva, articolata per i diversi Paesi di confine, in ordine alla franchigia, alla deducibilità degli oneri e alla detraibilità delle spese. Una regolamentazione che da un lato si occupi della tassazione previdenziale con un’unica aliquota di vantaggio (si ricordi ad esempio ancora una volta il modello svizzero nella voluntary disclosure), per rendite e capitali previdenziali maturati all’estero in luogo delle aliquote fiscali ordinarie, mentre dall’altro intervenga attraverso misure di sostegno in quell’interregno rappresentato dalla maturazione del diritto al pensionamento all’estero (normalmente di valore contenuto), non coincidente con la maturazione INPS[1]. Un provvedimento che introduca forme di bilateralità capaci di definire un welfare locale nel vasto territorio transfrontaliero, anche in considerazione delle specificità delle tante comunità locali. Nelle prossime settimane, acquietate le turbolenze della formazione del Governo, formalizzeremo la richiesta di riapertura del tavolo interministeriale a cui, in relazione allo stato di avanzamento del merito delle questioni già raggiunte con il Governo Gentiloni, auspichiamo vi siano fin da subito le condizioni affinché si possa lavorare alla traduzione delle stesse in un provvedimento di legge da sottoporre alle Camere.

 

Non meno il lavoro sindacale dei prossimi mesi dovrà poi concentrarsi sulla capacità di declinare le grandi questioni nazionali dei frontalieri nella più articolata dimensione locale: da Ventimiglia a Bolzano, dalle Alpi dell’arco Lemanico a San Marino (dove l’introduzione per legge di una tassa etnica sui salari ha “sporcato” il grande risultato della stabilizzazione a tempo indeterminato ottenuto dalle OO.SS. locali), passando per Trieste, le questioni territoriali hanno bisogno di un’azione specifica che consenta agli organismi sindacali deputati i CSIR (consigli sindacali interregionali costituiti tra le organizzazioni sindacali dei paesi confinanti), di acquisire un nuovo protagonismo. In tal senso la prossima presidenza italiana del 2019 di Eusalp (European Strategy for Alp Region), può rappresentare l’occasione per affrontare i temi specifici del lavoro transfrontaliero di competenza delle 48 regioni coinvolte. Non abbiamo l’ambizione di costituire tavoli negoziali con un soggetto, Eusalp, che si configura come una forma di coordinamento tra Istituzioni pubbliche, privo di fondi propri (ma non per questo allergico ai fondi della programmazione comunitaria a progetto o integrabile con gli strumenti delle Euroregioni attive e finanziabili attraverso i GECT (gruppo europeo di collaborazione territoriale), ma certamente di divenire uno degli stackeholders da consultare al pari di altri soggetti del vasto mondo associativo e della rappresentanza, in quanto portatori di istanze e di conoscenze specifiche all’interno dei nove gruppi d’azione già impegnati sui tanti temi dello sviluppo, dell’innovazione, dell’ambiente e della coesione sociale, solo per citare i più significativi.

 

Un lavoro di medio termine che ci vedrà impegnati in una fase politica di particolare complessità che, anche sul piano simbolico, attribuisce sempre più alla frontiera il luogo della separatezza anziché quello della contiguità, della contaminazione culturale, della mutua collaborazione. Un lavoro che prova così, anche per questa via, insieme al lavoro operoso dei 45 CSIR sparsi per tutta Europa, a contribuire a quel senso di comunità diffusa in controtendenza all’irresponsabile rinascente politica dei tanti particolarismi nazionali in nome di una protezione dal pericolo esterno; esterno soprattutto alle nostre responsabilità ed alle nostre coscienze.

 

 

[1]                                                                                                                                                                               Nel caso svizzero in base all’art. 76 L.413/91 le rendite erogate dall’AVS (assicurazione obbligatoria per la vecchiaia e per i superstiti è il primo pilastro della previdenza sociale svizzera), sono tassate al 5% , al contrario le rendite ed il capitale LPP (previdenza professionale obbligatoria secondo l’abbreviazione ufficiale della legge federale che ha il compito d’integrare le prestazioni delle istituzioni previdenziali Avs), e quelle di prepensionamento, non hanno mai visto un quadro definito ed unitario. In occasione della finestra di voluntary disclosure (con legge 186/2015 la “collaborazione volontaria” è uno strumento che consente ai contribuenti che detengono illecitamente patrimoni all’estero di regolarizzare la propria posizione denunciando spontaneamente all’Amministrazione finanziaria la violazione degli obblighi di monitoraggio), lo Stato ha concesso ai frontalieri pensionati di regolarizzare le eventuali omissioni contributive con il pagamento dell’aliquota unica del 5% (D.L. 153/2015), in luogo delle aliquote IRPEF ordinarie significativamente più alte per effetto della tassazione italiana. L’auspicio è che tutte le forme di rendite e capitali erogati da enti previdenziali all’estero possano essere tassati con l’unica aliquota del 5%.